Pubblichiamo il testo dell’Omelia di Mons. Emilio Patriarca in occasione della Celebrazione Eucaristica del 6 giugno 2019 per i suoi 20 anni di episcopato.
In quel tempo, durante l’ultima cena, Gesù disse ai suoi discepoli: “Ricordatevi della parola che vi ho detto. Un servo non è più grande del suo padrone”. Gesù aveva detto poco prima per esprimere la stessa cosa: l’apostolo, cioè colui che è inviato, non è più grande di chi l’ha inviato.
Oggi, in questo momento, qui in questa celebrazione Eucaristica, Gesù dice a noi, che siamo i suoi discepoli: “Ricordatevi che colui che è inviato non è più grande di chi l’ha inviato. Io, che celebro il XX anniversario di Consacrazione Episcopale, sento questo invito di Gesù rivolto personalmente a me. Ma nello stesso tempo anche ciascuno di voi è invitato a sentirlo rivolto a sé.
Il ricordo di queste parole di Gesù che cosa suscita in me? Innanzitutto risveglia in me la consapevolezza che ho una missione; di più, che esisto per una missione, esisto non solo per me stesso, ma per qualche cosa che va oltre me stesso.
Il ricordo di queste parole di Gesù, innanzitutto mi rende consapevole che sono inviato. Non sono uno che è qui per caso, io ci sono perché sono stato inviato per un compito, una missione. Dunque la mia esistenza ha un senso, una direzione, un obiettivo che va oltre me stesso.
Nello stesso tempo il ricordo di queste parole di Gesù mi rende sempre più consapevole che c’è uno che mi ha inviato, che c’è lui, Gesù, che è più grande di me. Gesù sta prima di me, c’è Lui. Poi ci sono io, non solo all’ inizio, ma in ogni momento, in ogni passo della mia vita.
La nostra tentazione di discepoli di Gesù, soprattutto dei più zelanti, è quella di non stare dietro a Lui, ma di passargli davanti, come se noi sapessimo già la strada da percorrere, Ricordate che cosa disse Gesù a Pietro, che voleva dissuaderlo di andare a Gerusalemme per dare la sua vita per noi? Gli disse: Vade retro, mettiti dietro a me, lasciati guidare da me, disponibile ad andare anche dove tu non avresti mai pensato di andare.
Mi è rimasta impressa nella mente una frase sentita pochi giorni dopo che ero entrato in seminario, detta da un sacerdote già anziano. “Il Signore mi ha condotto là dove non avrei mai immaginato di andare”. Queste parole mi sono venute in mente in diverse occasioni, ad esempio, quando non ancora diacono fui mandato ad insegnare latino, io che mi ero diplomato in ragioneria; o quando rientrato in Italia, dopo la mia prima permanenza in Zambia, fui assegnato come padre spirituale al Seminario, ma soprattutto quando sono stato nominato vescovo della diocesi di Monze. È giusto, utile, doveroso avere prospettive per il nostro futuro, progettare; è bello sognare, ma il discepolo sa che tutto ciò che viene da lui va messo nelle mani di Gesù. Il discepolo sa che in tutto ciò di giusto, di buono che nasce in lui, già c’è il seme di ciò che Dio vuol donagli in Gesù. Un dono che non può conoscere in anticipo, ma a poco. poco lasciandosi guidare da Gesù
Sono stato Vescovo della Diocesi di Monze per 15 anni. L’attitudine di fondo che ha caratterizzato questi 15 anni è stato l’assillo quotidiano per la diocesi che mi è stata affidata. Dal momento in cui sono diventato Vescovo è iniziato in me un processo di identificazione con la diocesi di cui ero Vescovo. Tutto ciò che concerneva la vita, la missione della diocesi mi toccava personalmente, mi coinvolgeva, mi chiamava in causa e mi sentivo di dire con San Paolo. “Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?” (2 Cor 11,29).
Certamente l’assillo che ho sentito di più, in continuità e in profondità, è stato quello che ha riguardato la cura e la formazione dei preti locali, che erano aumentati in numero e svolgevano il loro ministero in gran parte delle parrocchie. E qui ho dovuto trovare l’equilibrio tra due atteggiamenti, che penso debbano coesistere e riconciliarsi continuamente. Il primo è stato quello dell’accettazione della persona, di quel prete in particolare, un’accettazione animata da fiducia in quella persona, nel Signore che lo ha chiamato e che gli vuol bene. Un’accettazione che mi rendeva capace di vedere il più possibile l’aspetto buono, positivo della persona, Un’accettazione che non mi portava a chiudere gli occhi su limiti, carenze, debolezze, atteggiamenti oggettivamente negativi, ma mi aiutava a guardare al tutto in un contesto di sincera benevolenza e di fiducia, che non giungeva mai a squalificare la persona. È l’accettazione di un padre o di una madre nei confronti dei figli. Il secondo atteggiamento è stato quello della passione ardente dentro il mio cuore che un prete fosse un prete secondo il cuore di Gesù. Per il suo bene, per il bene della gente e della Chiesa. Come Vescovo ho desiderato fortemente, voluto appassionatamente che i preti a cui affidavo la cura delle parrocchie fossero preti autentici. Preti santi, preti che pregano, che siano fedeli al loro celibato, inteso nel suo significato più vero, preti che abbiano un autentico zelo apostolico.
Questi due atteggiamenti, che ho cercato di descrivere, in tensione tra di loro, ma nello stesso tempo complementari, possono essere compresi bene da chi ha compiti educativi, in particolare dai genitori nei confronti del loro figli. Questo assillo per i preti che segnò i 15 anni del mio ministero in missione fu quotidiano e a volte si fece molto intenso e coinvolgente, prendeva gran parte delle mie energie.
Alla fine della Messa di consacrazione del mio successore, rivolgendomi ai tanti sacerdoti presenti ho detto. “Voi avete avuto un posto speciale nel mio cuore”. E poi, rivolgendomi a tutta la folla dei fedeli, ho immediatamente aggiunto: “Ciò non significa che io abbia voluto meno bene a voi o che pensi che i sacerdoti siano più importanti di voi, ma da quando sono diventato Vescovo il mio specifico modo di volervi bene e prendermi cura di voi è stato quello di avere a cuore i sacerdoti affinché essi, che vi sono vicini nelle varie parrocchie e istituzioni della diocesi, diventino sempre più “vostri servi per amore di Cristo”.
L’assillo quotidiano per la diocesi, di cui la cura per i preti locali ne faceva significamene parte, si coniugava, andava di pari passo in questi 15 anni di ministero episcopale con la consolazione che il Signore Gesù non mi faceva mancare. Quanto più l’assillo cresceva, tanto più Gesù mi consolava, mi confortava. Ci sono stati momenti in cui mi sono sentito indifeso, trovato in situazioni da cui non sapevo come ne sarei uscito. Ho incontrato delle difficoltà che si presentavano al di sopra delle mie capacità. Ebbene, in quei momenti è accaduto ciò che non avrei mai pensato. Non mi sono perso d’animo, ma con mia sorpresa sono riuscito a fare ciò che normalmente non so fare, ho preso decisioni che non avrei mai pensato di avere il coraggio di fare. Ci sono stati momenti in cui davvero non mi sono appoggiato su di me, sulle mie forze, capacità, ma rimesso nelle mani del Signore e sperimentato un senso di pace interiore e mi sono sentito di poter fare veramente mie le parole di San Paolo: “Io posso ogni cosa in Colui che mi fortifica” (Fil 4,13). Tutto ciò grazie a Gesù che mi consolava nei miei assilli quotidiani.
Ho condiviso ciò con voi non perché mi senta speciale, no assolutamente, ma perché anche voi nella vostra storia, che è singolare per ciascuno, possiate trovare nei vostri assilli quotidiani, che certamente non mancano, la presenza consolatrice di Gesù nel quale tutto possiamo.
Sono stato vescovo 15 anni in Africa e ora da 5 anni sono qui nella parrocchia di Comerio, nella Comunità pastorale della SS Trinità, nel Decanato di Besozzo. Mi sento accolto, sostenuto, accompagnato con tanto affetto. Faccio vita comune con don Mario, che ben conoscete e non aggiungo altro. Potete immaginarlo. E questa è per me è una bella occasione di ringraziarvi. Ringrazio tutti, e ciascuno in modo singolare.
Non sono più giovane. Ricordo ciò che diceva scherzosamente un Gesuita anziano, che ho incontrato al mio primo arrivo in Africa. “Il mio futuro è alle mie spalle”. Verrebbe da dirlo anche a me. Ma mi rendo conto, però, che non è corretto pensare cosi. È bene fare memoria del passato, ma la vita continua, va avanti e il meglio deve sempre ancora venire, “cibotu cibbola” e il presente è il tempo in cui il Signore ci incontra e sta con noi con le sue sorprese.
Sono anziano, la vita si è fatta un po’ più faticosa, non tanto perché ho tanto da fare, ma perché le forze vanno affievolendosi. Ma il Signore Gesù mi aiuti a capire che questo tempo, il tempo della vecchiaia, è prezioso, è il più prezioso della mia vita, perché è il tempo in cui il Signore mi è più vicino.
Il nostro Dio, il Dio in cui crediamo, il Dio di Gesù Cristo, non è il Dio dei potenti, dei grandi secondo i criteri di questo mondo, ma è il Dio dei piccoli, dei deboli. Il tempo della vecchiaia è il tempo in cui il Signore Gesù ci aiuta a deporre tutte le nostre ambizioni di grandezza, di successo mondano, e a capire in un modo sempre nuovo le parole che Gesù disse a San Paolo: “La mia grazia ti basta” e che l’unica cosa che conta è Lui. il suo amore per ciascuno di noi, che possiamo vedere riflesso in quelle persone che ci sono vicine e si prendono cura di noi.
Ringraziamo insieme il Signore e preghiamo gli uni par gli altri.
Emilio Patriarca vescovo